Articoli di Giovanni Papini

1903


Me e non Me
Pubblicato in: Leonardo, anno I, fasc. 2, pp. 2-4
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Data: 14 gennaio 1903


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Vi sono ancora degli uomini ì quali credono, nella semplicità della loro ignoranza filosofica, che la negazione valga a distruggere qualche cosa e non sono ancor giunti a comprendere com'essa, invece, interpreti o crei. Essi non vedono come il negare gli altri importi già la creazione di qualcosa che vale infinitamente più e meglio - cioè di sè stesso.
  Nella loro timidezza, fatta di angustia mentale, non sanno staccarsi dalle gonne della Logica, di questa serva che si dà dell'arie di padrona e che invece di sorreggere, com'è suo ufficio, i deboli, cerca di soffocare i forti. Questi piccoli uomini ardono ancora dei vecchi aromi retorici dinanzi alla dea Verità, a questa maschera molteplice e variopinta di cortigiana che non racchiude se non credenze - e sfuggono, come reati obbrobriosi, dalle contraddizioni, che sono invece per noi le massime prove di ricchezza e di libertà. Essi tengono soprattutto a quella virtù da cinesi inebetiti che sì chiama coerenza e s'illudono ancora sulla possibilità della dimostrazione, non essendosi accorti che sotto quel nome non si trovano che semplici descrizioni di stati intellettuali.
   Noi riteniamo invece che l'essenziale stia nel dire, recisamente e ferocemente, ciò che siamo e ciò che non siamo: le ragioni, da buone cameriere del sentimento e dell' inconscio, non mancano mai per fornire dei sostegni razionali a ogni nostra tendenza e ad ogni nostra avversione.
    Si narra che presso certi filosofi le prove abbian fama di esser più compiacenti delle stesse donne, cioè che si offrano anche senza invitarle.
   Perciò niente mi riuscirebbe più facile che di costruire, dinanzi agli sguardi intenti de' lettori, un bel sistema filosofico che avesse i suoi postulati, i suoi fondamenti, le sue applicazioni come ogni altro sistema per bene che sia apparso in


 
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quella fiera ricca e bizzarra che si chiama storia della filosofia. Esso darebbe ragione di tutti i dubbi, spiegherebbe tutti i nostri sdegni, giustificherebbe ogni nostro assalto, darebbe la chiave delle nostre ammirazioni, farebbe insomma tutti quegli utili servigi che rendono di solito quei piacevoli giuochi di adulti intelligenti che sono le costruzioni filosofiche. Il nome o c'è già o si fa presto a trovarlo, e tutti i filistei della città e dintorni saprebbero finalmente in quale cassettina del loro cervello debbono collocarci, con tanto di etichetta sulla schiena.
   Ma io ho la pericolosa melanconia di essere di tanto in tanto sincero e non voglio, almeno per oggi, gabellarvi per mio sistema ben definito qualche brano dell'ultimo capitolo della mia autobiografia intellettuale. E mi dovete tanto più ammirare quanto più la tentazione è forte, chè, guardando bene a fondo, tutti gli onorevoli filosofi che mi hanno preceduto, fecero, coscienti o no, quello che io avrei fatto in questo caso. Ma un'altra tendenza pericolosa, oltre quella della sincerità, mi impedisce innocente finzione. Se gli uomini sono veramente, come la pensava il buon Herr Diogene Teufelsdroeck, reso immortale da Carlyle, degli animali che si distinguono da tutti gli altri per il fatto d'usare degli arnesi, io confesso, che di tutti gli strumenti del lavoro umano preferisco l'ascia e il piccone. Non ci può essere, per me, una verace e bella creazione, se non si crea prima, col distruggere, lo spazio e la libertà onde alzarla superba al cielo, e troppi e soverchi impedimenti sorgono intorno a noi perché ci sia dato por mano alla nostra sognata opera di edificazione. Troppe cattedrali d'idoli vecchi e nuovi, di feticci ufficiali e clandestini, si assiepano sulla nostra strada perchè possiamo così tosto dismettere le nostre vesti d'iconoclasti e di scorridori. Per chi sappia vedere al di là delle formulette scolastiche, la nostra distruzione è una rivelazione del nostro me e più chiara appare la nostra indole nella scelta dei nemici che in una stilizzata e determinata affermazione d'idee. E se questo facemmo fu per necessità e non per desiderio. Come uno de' metodi più sicuri delle scienze fisiche consiste nell' eliminazione delle qualità o cause possibili, cosi noi crediamo che la più limpida definizione non possa resultare che dalla più complessa negazione.
   E come io negai, or son pochi giorni, quella forma ibrida e bestiale d'individualismo, che va sotto il nome d'imperialismo cosi non sarà inutile oggi distinguerci da altre forme più o meno prossime di esso. Una delle differenze fondamentali del nostro personalismo da ogni altra simile manifestazione di pensiero è che il nostro ha essenzialmente dei fondamenti gnoseologici, e un colorito puramente intellettuale. Mentre le altre dottrine individualiste, appunto perchè tali, riconoscono l'esistenza reale di più individui, che esistono indipendentemente gli uni dagli altri, e, che lottano fra di loro, noi invece ritroviamo una delle più lontane sorgenti del nostro personalismo in quell'ultima e più rigorosa forma dell'idealismo ch'è nota nella storia della filosofia sotto il nome di solipsismo o monopsichismo. Mentre gli idealisti comuni, del tipo berkeleyano o kantiano, fanno esistere, al di fuori del loro spirito, altri spiriti e una cosa in sè, noi, oltre a rigettare il fantasma del noumeno, ultima scoria del pregiudizio sostanzialista, consideriamo tutte le realtà dell'universo come riducibili alla personalità cosciente e presente. Cioè non solo le cose sono modificazioni dello spirito in generale, ma sono niente altro componenti dì una coscienza unica e attuale.
   Così anche quei complessi di sensazioni ai quali si dà il nome di uomini, non hanno per me una qualsiasi esistenza reale al difuori del mio spirito, ma sono nulla più che parti transitorie e mutevoli di esso. Per quanti sforzi faccia per uscire dai limiti dell'io, una qualsiasi ipotesi su una loro esistenza personale mi è rigidamente interdetta. La storia stessa, che parrebbe la più solenne smentita a questa concezione del mondo, è forse qualcosa di diverso da una scoperta e da una creazione presente, che viene, per un'abitudine esteriore del nostro spirito, proiettata nel passato?
   Se niente esiste se non ciò ch'è conosciuto, la storia, finchè io non la scopra o la crei non è, e come scoperta e come creazione essa è necessariamente mia e presente. Così gli Eroi, le grandi figure del passato che noi esaltiamo e ammiriamo, non sono che frammenti preziosi del nostro io, ove la personalità si arricchisce e trova sè stessa.
   Di fronte dunque alla forma primitiva d'individualismo ch'è quello incosciente e animale, proprio a tutto ciò che vive, e che si ritrova, onnipresente e onnipossente, sotto le più entusiaste affermazioni e teorie umanitarie - e di fronte al pseudo individualismo imperialista, soldatesco e impicciolitore, si contrappone il nostro personalismo, a base intellettuale e idealista. In esso non appare l'aspirazione bellicosa alla lotta umana e parziale, ma la piena coscienza della possessione integrale di tutte le cose. In esso il culto idiota delle parole ben delimitate non ci sottrae quelle forme utili e raffinate di egoismo che si chiamano sentimenti altruistici - l'odio giustificato della collettività perpetua e forzata non ci impedisce di cogliere i doni della collettività libera e scelta. E per quanto il nostro personalismo abbia delle radici teoriche lontane dai luoghi comuni del repertorio ideologico, pur nonostante non va a prendere il suo battesimo in qualcuna di quelle sintesi a priori uso Fichte e Schelling, bellissime e pericolose come vergini folli, ma si vale anzi di un'analisi profonda dei dati ultimi della realtà, cioè dei fatti psichici, cercando di afferrare sotto i simboli, necessari ma illusori, l'io nascosto e profondo, nel quale sta, se non la spiegazione, almeno l'origine di tutti i fenomeni.
   In questo nostro personalismo gli uomini, che sono ì più interessati perchè affermano tutti di credere fermamente alla propria esistenza, sono per noi niente più che una delle materie più attraenti e più maneggiabili dei nostri giuochi superiori. Per quanto io stimi mediocremente queste pullulanti e schiamazzanti figurine che si dicono i re della natura pur nonostante debbo riconoscere che lo studiarli e l'osservarli è un pò più divertente che ìl fare delle combinazioni dì acidi o delle formule trigonometriche. Essi danno qualche volta quel dolcissimo spettacolo ch'è l'impreveduto e in grazia a loro noi ci spingiamo talvolta fino a farci i profeti del futuro, pur rimanendo coscienti che si tratta non d'altro che di un nostro passatempo presente. Noi ci curiamo dunque degli uomini in larga misura e leggiamo con maggior piacere una storia di questi curiosi animali a strumenti che un trattato su i batraci o una memoria di geometria descrittiva. Ma ci duole assicurare i nostri rispettabili simili che noi non ci occupiamo di loro all'uso dei filantropi illuministi, dei nietzschiani vaticinanti o dei sociologi positivi, cioè prendendo a cuore i loro interessi e considerandoli colla cosidetta serietà che, fra parentesi, è la più noiosa specie di buffoneria che usi nel mondo. Noi abbiamo per loro lo stesso amore che un giocatore ha per le sue carte e per i suoi dadi e se ci accusassero ch'è poco noi potremmo rispondere ch'è ancor troppo per delle ombre.
   A questo punto mi par che qualcuno sussurri un non so che di psichiatria, e qualche voce suggerisca qualcosa di simile a Bedlam. La cosa, per verità, non mi stupisce. Tutto ciò che urta troppo direttamente contro le preistoriche abitudini mentali di questi selvaggi ipocriti e raffinati che sono gli uomini civili porta già nel loro dizionario, delle condanne e degli anatemi un terribile nome: Follia. Con una monotonia che comincia a stancare, chiunque osi uscire dalle strade troppo


 
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battute, dalle chiese troppo affollate, e affermi cose che i più non comprendono viene ornato del nome e della fama di pazzo. Noi siamo troppo abituati a ciò per farne meraviglia, e riponiamo il vecchissimo epiteto nella nostra modesta raccolta di complimenti.
   Un piccolo ciarlatano celebre, che risponde al nome di Cesare Lombroso, ha sostenuto in molti dei suoi fastelli confusi di fatti che si ostina a chiamar libri, la notissima tesi che il genio sia una forma degenerativa che ha intima relazione con certe malattie mentali. Noi non aspiriamo a tanto. Il nome di genio è stato cosi prodigato a tanti avventurieri della fama, che non ci sembra meriti il nostro desiderio.
    L'appellativo di genio è un brevetto che dà la folla e noi non vorremmo mai accettar niente dalle mani volgari di questa nostra nemica. A noi basta essere e sentirci diversi — vivere di una interior vita intensa e secreta, che nessun scherno di mediocri potrà turbare — e, ogni tanto, per gioco, gettare in mezzo agli altri uomini qualche bel pazzo paradosso per contemplare in disparte i sorrisi e le smorfie dei piccoli saggi.


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